(Amettes, Francia, 26 marzo 1748 – Roma, 16 aprile 1783)
Portato alla contemplazione, desiderò diventare trappista ma, per il suo spirito inquieto, ebbe difficoltà a restare nei monasteri. Partì per Roma e lungo il percorso scoprì la sua vera vocazione: Dio lo aveva messo sulla strada e qui sarebbe rimasto. Divenne “ il vagabondo di Dio “ in compagnia dell’Imitazione di Cristo, del breviario, di un Crocifisso e della corona del rosario, compì pellegrinaggi in Italia e Francia, vivendo di carità che distribuiva i bisognosi. Morì a Roma nel retrobottega del macellaio che lo aveva raccolto per strada svenuto, dopo tredici anni vissuti pellegrinando, testimone, come soleva dire, del fatto che “ in questo mondo siamo tutti pellegrini verso il Paradiso “.
In questo mondo siamo tutti pellegrini nella valle di lacrime: camminiamo sempre per la via sicura della Religione, in Fede, Speranza, Carità, Umiltà, Orazione, Pazienza e Mortificazione cristiana, per giungere alla nostra patria del Paradiso”. Era questa una delle massime preferite di S. Benedetto Giuseppe Labre, che ben corrisponde alla sua testimonianza di vita. Dei 35 anni che visse, almeno 13 li passò da “pellegrino” sulla strada. A giusto titolo perciò lo si definì “il vagabondo di Dio” o anche “lo zingaro di Cristo”, espressioni ben più tenere che non “santo dei pidocchi”, come venne pure denominato.
Benedetto Giuseppe Labre nacque ad Amettes, presso Arras, il 26 marzo 1748, primo di 15 figli di modesti agricoltori. Fece qualche studio presso la scuola del villaggio e apprese i primi rudimenti del latino presso uno zio materno. Portato più alla vita contemplativa che al sacerdozio, sollecitò invano dai genitori il permesso di farsi trappista. Solo a diciotto anni poté fare richiesta d’ingresso alla certosa di S. Aldegonda, ma il parere dei monaci fu contrario. Stessa ripulsa ricevette dai cistercensi di Montagne in Normandia, dove giunse dopo aver percorso a piedi 60 leghe in pieno inverno. Solo sei settimane durò il suo soggiorno nella certosa di Neuville, e poco di più rimase nell’abbazia cistercense di Sept-Fons, di cui però avrebbe sempre portato la tunica e lo scapolare di novizio.
A 22 anni prese la grande decisione: il suo monastero sarebbe stato la strada, e più precisamente le strade di Roma. Nel sacco di povero pellegrino portava tutti i suoi tesori: il Nuovo Testamento, l’Imitazione di Cristo e il breviario che recitava ogni giorno; sul petto portava un crocifisso, al collo una corona e tra le mani un rosario. Mangiava appena un tozzo dì pane e qualche erba; non chiedeva la carità e, se la riceveva, si affrettava a renderne partecipi gli altri poveri, anche a rischio che il donatore, scorgendovi un gesto di scontentezza, facesse seguire alla moneta una gragnuola di bastonate (come effettivamente avvenne un giorno). Di notte riposava tra le rovine del Colosseo e le sue giornate le passava nella preghiera contemplativa e nei pellegrinaggi ai vari santuari: uno dei più cari al suo cuore fu quello di Loreto.
Morì logorato dagli stenti e dall’assoluta mancanza d’igiene il 16 aprile 1783, nel retrobottega del macellaio Zaccarelli, presso la chiesa di S. Maria dei Monti, in cui venne sepolto tra grande concorso di popolo. Venne canonizzato nel 1881 da Leone XIII.
Autore: Piero Bargellini